“Il contratto di transizione tra il diritto civile e diritto del lavoro”. EdiMiz a cura di PASQUALE DUI, AVVOCATO E PROFESSORE A CONTRATTO UNIVERSITÀ BICOCCA MILANO

“Il contratto di transizione tra il diritto civile e diritto del lavoro”. EdiMiz a cura di PASQUALE DUI, AVVOCATO E PROFESSORE A CONTRATTO UNIVERSITÀ BICOCCA MILANO

Il contratto di transazione ha in comune con altri istituti del codice civile la finalità di portare ad estinzione, al di fuori del processo, le controversie di ogni genere e specie, quantomeno laddove siano in gioco interessi per lo più patrimoniali (e non di natura personale ovvero di natura indisponibile, come ad esempio gli status familiari).

Tra gli strumenti per la risoluzione delle controversie, troviamo l’arbitrato irrituale, la cessione dei beni ai creditori, il sequestro convenzionale.

In particolare, la transazione è un contratto tipico, regolato dal codice civile negli articoli da 1965 a 1976, nelle sue specificità caratterizzanti e con una disciplina compiuta e del tutto particolare. È il contratto con il quale le parti pongono fine ad una lite già insorta, ovvero impediscono che possa sorgere, facendosi reciproche concessioni.

Parlando di “transazione”, nella logica di comune linguaggio e, segnatamente, in una visione economica del fenomeno, si fa riferimento a concetti di valore e significato tendenzialmente ampi, ossia ai concetti di affare, intesa, convenzione, con conseguente trasposizione, sul piano strettamente giuridico, nella fattispecie del contratto.

L’impostazione prevalente qualifica la transazione come un contratto a titolo oneroso, bilaterale (o anche plurilaterale) con prestazioni corrispettive. La scienza giuridica ha osservato che la nozione suddetta, fornita dall’articolo 1965 cod. civ., non individua un tipo contrattuale in base al contenuto di una o di entrambe le prestazioni contrapposte, ma descrive una funzione cui possa assolvere una qualsiasi prestazione, dalle parti disponibile.

Il contratto di transazione, in questo senso, deve piuttosto ritenersi quale istituto dotato di caratteristiche peculiari, quantomeno in ragione della duplice circostanza per cui il sacrificio di ognuno dei contraenti, da un lato può assumere un qualsivoglia contenuto, dall’altro deve nondimeno essere funzionalmente orientato a porre fine ad una lite, attuale, o potenziale.

Lo “spirito”, e insieme la finalità dell’istituto, è infine quello per cui, rinvenuto il ricercato assetto transattivo, le parti non possono riattivare la controversia amichevolmente composta, essendo appunto questo l’elemento e l’effetto caratterizzante – in questi termini “preclusivo” – dell’istituto stesso, come conferma d’altro canto la legge, laddove esclude la possibilità di impugnare la transazione per errore di diritto, relativamente alle questioni che siano state oggetto della controversia tra le parti (art. 1969 c.c.) e per lesione (art. 1970 c.c.) ovverossia per ragioni che, ove consentite, porterebbero all’inammissibile reinnesco della c.d. lite-presupposto.

Il presupposto essenziale del contratto di transazione è la sussistenza di una effettiva res litigiosa, connotata dall’essere innestata in un qualche di conflitto di interessi tra le parti coinvolte. Elemento fondamentale per la possibile qualificazione di un atto giuridico bilaterale quale transazione, secondo l’orientamento corrente della dottrina e della giurisprudenza, è dunque la presenza di una res dubia (che, in caso di radicamento di una lite giudiziaria, si identifica, evidentemente, nelle contrapposte allegazioni delle parti).

La dottrina più tradizionale, in una visione concettuale e pragmatica, individua altresì nel contratto di transazione il riferimento ad una lite “futura”, nel senso più estremo del termine, sulla base della considerazione per cui le reciproche concessioni possono, normalmente ed in via naturale, riguardare anche vertenze a venire ed evenienze di danni non ancora consolidatisi, purché ragionevolmente prevedibili.

In materia di lavoro, peraltro, la transazione ha una particolare disciplina, che si rinviene nell’articolo 2113 cod. civ., secondo cui le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide e possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione se intervenute dopo la cessazione medesima. Le disposizioni rigorose del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta in sede giudiziale, davanti al giudice; in sede amministrativa, davanti all’Ispettorato Territoriale del Lavoro; in sede sindacale, davanti ad apposita commissione di conciliazione.

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Pasquale Dui
Avvocato in Milano
Professore a contratto nell’Università di Milano Bicocca



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